LA RIVOLUZIONE AGRICOLA
L'incapacità
dell'economia fondata sulla caccia e sulla raccolta di sostenere indefinitamente
la crescita, sia pure moderata, della popolazione umana si era già
sicuramente manifestata nel Mesolitico, un periodo che, come si è
accennato, nonostante la realizzazione di importanti progressi di natura
tecnica, presenta molti segni di impoverimento generale e lascia supporre
l'esistenza di persistenti difficoltà di vita. Del resto alcuni di quei
progressi, sia nelle tecniche della caccia sia in quelle della raccolta,
preludevano già a una soluzione totalmente nuova del problema della
sussistenza: la nascita dell'agricoltura.
A proposito di questo evento si
parla comunemente di «rivoluzione agricola». Se con
«rivoluzione» si intende qualcosa di simile al «voltar
pagina», ossia un avvenimento brusco, improvviso, che segna il passaggio da
una situazione relativamente statica a un'altra completamente diversa ma
altrettanto statica, il termine è senz'altro improprio. Il passaggio
dalla vecchia alla nuova economia fu molto graduale, implicò innumerevoli
fallimenti, interessò sporadicamente gruppi diversi in aree diverse e,
poiché richiese millenni per compiersi e altri millenni per diffondersi
un po' dovunque, possiamo essere certi che nessuno ebbe modo di accorgersi del
cambiamento. Ma il cambiamento, una volta compiuto, fu davvero radicale, e
poiché il termine «rivoluzione», oltre alla rapidità,
allude all'ampiezza o alla profondità del mutamento, sembra del tutto
legittimo continuarlo a usare per l'avvento dell'economia agricola.
Dal
punto di vista strettamente tecnico non è difficile immaginare quali
possano essere state le tappe che hanno preparato la rivoluzione agricola. Dalla
semplice raccolta della vegetazione spontanea si era passati a una raccolta
intensiva, caratterizzata da un oculato sfruttamento delle risorse vegetali,
tale, cioè, da evitarne il rapido esaurimento. Si erano poi adottate
pratiche di taglio e incendio della vegetazione volte a intensificare la
crescita delle specie ritenute utili, e infine si era arrivati ad una variante
«quasi-agricola» dell'economia di raccolta, nella quale il terreno su
cui crescevano i vegetali protetti veniva diserbato e in qualche modo difeso
dall'aggressione di predatori e parassiti.
È difficile invece dire dove si debba esattamente
collocare il confine tra la raccolta intensiva e l'agricoltura vera e propria.
Non sappiamo, ad esempio, se nella fase più evoluta della raccolta
qualche pianta venisse addirittura seminata oppure no. In senso proprio non si
può parlare di agricoltura prima della comparsa di tracce sicure di
domesticazione delle piante. Solo la domesticazione dimostra infatti in modo
inequivocabile l'esistenza di un'attività umana nel settore. Ma la
domesticazione è un fenomeno lento (anche se non sappiamo quanto lento)
ed è certo che le prime semine sono state fatte ancor prima della
comparsa di piante addomesticate. In ogni caso, seminasse o no e avesse o no
prodotto specie domestiche, quando l'antico raccoglitore cercava di proteggere
in qualche modo le piante che giudicava utili, rendeva «domestiche»
porzioni più o meno ampie di terreno, selezionava le specie vegetali che
vi crescevano, e insomma faceva proprio quello che il termine
«agricoltura» sta letteralmente a significare: «aver cura dei
campi».
Sulle ragioni che hanno dato luogo alla rivoluzione agricola e
sul modo in cui si è effettivamente attuata non sappiamo molto. In
proposito sono state formulate varie teorie, ma nessuna è in grado di
spiegare da sola e in maniera soddisfacente il fenomeno, anche perché la
pratica dell'agricoltura è nata in località e in tempi diversi e
(con ogni probabilità) sotto la spinta di cause diverse. Quello che si
può fare è ricostruire, sulla base delle testimonianze
archeologiche, che sono ormai relativamente abbondanti, singoli episodi o
momenti di una vicenda complessa che, a dispetto delle spettacolari
trasformazioni a cui ci ha abituato la società industriale, dobbiamo
continuare a considerare la più importante innovazione tecnica ed
economica in tutta la storia del genere umano.
Le prove raccolte dagli
archeologi sembrano indicare nel Vicino Oriente la regione dove per la prima
volta l'uomo ha sistematicamente praticato una coltivazione. A Gerico, in
Palestina, a Jarmo, nell'Iraq, nelle pianure della Turchia meridionale gli scavi
archeologi hanno rivelato l'esistenza, tra l'VIII e il VII millennio a.C., di
insediamenti di coltivatori neolitici. Da questi più antichi centri di
origine, sulle rive del Mediterraneo orientale e nell'entroterra palestinese e
siriano, l'agricoltura si è lentamente diffusa nelle terre alluvionali
della Mesopotamia (la regione attraversata dal Tigri e dall'Eufrate), e poi in
tutto il bacino del Mediterraneo. Si può dire che prima del 4000 a.C.
tutte le popolazioni costiere avessero abbandonato le antiche abitudini
paleolitiche e mesolitiche e praticassero una qualche forma di
agricoltura.
Più o meno contemporaneamente a quel che accadeva nel
Vicino Oriente e nel Mediterraneo, in almeno un'altra mezza dozzina di aree
geografiche sparse lungo la fascia tropicale e subtropicale del nostro pianeta
si sono verificati processi analoghi. Nel continente americano, in Oceania,
nell'Estremo Oriente si sono formate delle «isole» agricole che si
allargarono più o meno lentamente nel corso del tempo, con vicende
diverse da zona a zona. È probabile che in questa fascia climatica
l'agricoltura sia stata «scoperta» ripetutamente e in moltissimi siti,
ma che solo in certe condizioni l'innovazione abbia avuto la forza sufficiente
per affermarsi, proseguire con successo per più generazioni e lasciare
tracce rilevanti sul terreno.
Tra il 4500 ed il 2000 a.C. l'agricoltura
raggiunse il centro ed il Nord Europa, sia filtrando dai centri costieri verso
l'interno del continente, sia inoltrandosi lungo l'importante percorso della
valle del Danubio, una «strada» naturale tra il Medio Oriente e le
pianure della Germania. Più o meno nello stesso tempo la cultura
neolitica si diffondeva verso il cuore del continente africano, lungo l'altra
«strada» naturale rappresentata dalla valle del Nilo e verso il 3000
a.C. raggiungeva il Kenya. In Estremo Oriente popolazioni neolitiche dedite
all'agricoltura erano probabilmente comparse già nel sesto millennio a.C.
in tre «isole» principali: la Cina centro-settentrionale, la valle del
fiume Yang-tze-kiang e la Thailandia settentrionale. È probabile che
dall'area continentale la conoscenza delle tecniche agricole sia poi passata in
Indonesia. Nel Nuovo Mondo i primi vegetali domesticati (mais e fagioli)
risalgono al VI (o addirittura al VII) millennio nella regione delle Ande e al V
in Messico. L'agricoltura andina pare che sia nata a media altezza (tra i 2 e i
3000 metri) per scendere solo molto più tardi nelle pianure
costiere.
RIVOLUZIONE
Il termine «rivoluzione» richiama
genericamente l'idea di una trasformazione brusca e radicale, ma i tempi che
misurano la rapidità di una trasformazione «rivoluzionaria»
dipendono dal tipo di processi a cui il termine stesso viene riferito. Se si
applica a processi di natura politica (mutamenti violenti dei gruppi dirigenti,
cambiamenti di regime, modificazioni radicali degli ordinamenti giuridici, ecc.)
implica tempi brevi, anni (la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Russa) o mesi
(nella Rivoluzione Russa si distingue, ad esempio, la rivoluzione detta «di
Febbraio» da quella detta «d'Ottobre») o addirittura giorni (uno
dei più famosi libri dedicati alla Rivoluzione d'Ottobre scritto dal
giornalista americano John Reed, si intitola appunto I dieci giorni che
sconvolsero il mondo). Ma se si applica a trasformazioni profonde della
società, della cultura, dei modi di vivere, di pensare e di produrre,
implica decenni (come nel caso della cosiddetta «Rivoluzione
scientifica» da Galilei a Newton), secoli o addirittura millenni (come nel
caso, appunto, della «Rivoluzione agricola»). Nel primo caso quel che
conta è la rapidità e la violenza, nel secondo caso è la
profondità e la irreversibilità del mutamento.
L'ADDOMESTICAMENTO DEGLI ANIMALI
Quando si parla di «rivoluzione
agricola» ci si riferisce all'avvento di un sistema basato non solo sulla
coltivazione delle piante, ma anche sull'allevamento degli animali.
All'allevamento del bestiame si giunse per gradi, con un processo in gran parte
simile a quello descritto per le pratiche agricole. I primi passi in questa
direzione furono probabilmente compiuti dalle comunità di cacciatori del
Paleolitico tardo e del Mesolitico mediante l'elaborazione graduale di tecniche
di addomesticamento degli animali.
Sembra che i primi ad essere
addomesticati siano stati quegli animali che, come i cani, seguivano i gruppi di
cacciatori per impadronirsi dei loro avanzi di cibo (un po' come fa lo sciacallo
con la tigre) e che, nutrendosi di rifiuti, potevano rendersi utili all'uomo,
quanto meno contribuendo alla pulizia degli abitati. La vicinanza e l'abitudine
devono aver fatto scomparire a poco a poco la ripugnanza e la paura reciproca
tra l'uomo e l'animale: il cane, ad esempio, ha trovato presto il modo di farsi
accettare dall'uomo come suo compagno e collaboratore inserendosi nella vita
delle comunità umane con funzioni specifiche, come coadiuvare gli uomini
nella caccia o nella guardia dell'accampamento. La scena del cucciolo di cane
che gioca col cucciolo d'uomo è probabilmente molto antica.
Quello
del cane, però, è un caso del tutto particolare.
L'addomesticamento degli altri animali, quelli cioè che erano preda
dell'uomo e lo interessavano principalmente come risorsa alimentare, fu
probabilmente più tardo e le sue tecniche sembrano essere derivate dalle
tecniche stesse della caccia. Un animale vivo, catturato o appositamente
allevato, poteva servire come esca, richiamo o zimbello per vincere la
diffidenza delle mandrie selvagge ed attirarle nelle imboscate predisposte dai
cacciatori. È probabile che questo sistema (che in certi casi è
adoperato ancora oggi) fosse in uso già nel Paleolitico superiore. Sempre
in questo periodo è possibile che esistesse una forma di allevamento, per
così dire, «alla rovescia», in cui, cioè, un gruppo
umano si legava come parassita a un branco di animali. Erano insomma gli uomini
che seguivano i branchi nelle loro migrazioni, uccidendo via via i capi di cui
avevano bisogno per nutrirsi.
Questo sistema presentava l'indubbio
vantaggio di assicurare il cibo fino a quando la mandria non si fosse estinta:
un evento che certamente gli uomini erano interessati ad evitare. Una
conseguenza di questo modo di cacciare fu che l'uomo, costretto a legare i suoi
spostamenti a quelli degli animali e ad adattarsi alle loro abitudini,
imparò a dirigere e controllare i branchi, oltre che, naturalmente, a
difenderli da eventuali altri predatori. Non era lontano il momento in cui
sarebbe stato lui stesso a scegliere i luoghi dove spingere le mandrie per
meglio alimentarle, per proteggerle dai pericoli, per evitarne la dispersione,
per farle moltiplicare.
I primi animali domestici o semidomestici erano per
lo più di taglia modesta, come pecore e capre, e servivano all'uomo
principalmente come riserva vivente di cibo. Solo più tardi l'uomo
imparò a sfruttare la forza degli animali di taglia più grossa per
l'esecuzione di lavori gravosi, come il trasporto di carichi o il sollevamento
di pesi. La forza e la focosità dei grossi animali adatti a tali lavori,
come gli elefanti o i bovini, costituivano un serio ostacolo al loro
addomesticamento. Ad esso si giunse con ogni probabilità solo in
età relativamente tarda e per opera di comunità che praticavano da
tempo l'agricoltura e la pastorizia e che quindi possedevano un tipo di
organizzazione assai più complesso ed efficiente di quello esistente
nelle bande di cacciatori-raccoglitori.
Pressappoco contemporanea
all'agricoltura è la pastorizia, un peculiare sistema di sfruttamento
degli ambienti naturali basato sull'allevamento: di economia pastorale si
può parlare solo a partire da un certo grado di sviluppo e di
specializzazione delle tecniche di domesticazione e di allevamento. Non basta,
cioè, che un gruppo umano conosca queste tecniche, ma occorre che il
bestiame, capre, pecore e bovini, costituisca la sua principale risorsa
economica e che tutta la sua organizzazione sociale sia orientata
all'utilizzazione di questa risorsa. Nelle Americhe e in Oceania, per esempio,
pur essendo noto l'addomesticamento e l'allevamento di particolari specie locali
non si è mai sviluppata una vera e propria economia pastorale. Nel
Vecchio Continente le prime forme documentate di pastorizia sono state praticate
da popolazioni agricole dell'Asia Minore.
Il fatto che l'economia pastorale
si sia diffusa quasi contemporaneamente a quella agricola ha prodotto una
precoce concorrenza, determinando una situazione di almeno potenziale conflitto
tra le popolazioni dedite all'una e all'altra attività. Dato il carattere
itinerante dell'agricoltura primitiva, i coltivatori neolitici avevano fame di
spazio; ma questa fame era anche più forte nelle popolazioni pastorali,
che erano costantemente in cerca di nuove terre da adibire al pascolo delle
mandrie. Nelle culture successive al Neolitico, poi, le popolazioni agricole e
quelle pastorali hanno scelto modi di vita decisamente divergenti. Le prime
hanno adottato abitudini rigorosamente sedentarie legandosi a insediamenti
stabili. Le popolazioni pastorali, al contrario, raggiunto un buon livello di
specializzazione, hanno ripreso quel nomadismo che l'umanità aveva
già seguito in una più primitiva economia di
raccolta.
Nonostante le differenze nei modi di vita, in alcune regioni del
continente euroasiatico agricoltura e pastorizia poterono convivere a lungo e
pacificamente. In altre invece, là dove si insediavano gli agricoltori
non vi era spazio per i pastori e viceversa. Il nomadismo pastorale ha dominato
nelle regioni aperte con terreni poco fertili o nelle zone montuose con limitati
insediamenti agricoli. Oltre a questa forma più esclusiva e specializzata
di vita pastorale sono esistite (ed esistono) forme di seminomadismo in cui la
tribù dei pastori, come avviene ancora nella zona degli altipiani
algerini, compie migrazioni periodiche e regolari, mantenendosi però
sempre in vicinanza di centri agricoli e commerciali. Un residuo di
seminomadismo rimane in una pratica pastorale molto diffusa nell'area
mediterranea: la transumanza, che consiste nella migrazione stagionale delle
mandrie o dei greggi dai pascoli invernali ai pascoli estivi e
viceversa.
Agricoltori e pastori rappresentavano forme ugualmente evolute
di organizzazione sociale. Della loro espansione hanno fatto le spese
soprattutto le popolazioni che ancora praticavano un'economia di raccolta e di
caccia e che sono state progressivamente relegate in aree marginali, di
difficile accesso o che presentavano condizioni ambientali decisamente
sfavorevoli ad una utilizzazione del suolo di tipo agricolo o pastorale.
Naturalmente, queste aree si dicono «marginali» solo perché
tali apparivano alle popolazioni più evolute che praticavano
l'agricoltura o la pastorizia.
È probabile che i primi animali
addomesticati dall'uomo siano stati di taglia piuttosto piccola, come pecore e
capre. Allo stadio del semplice addomesticamento i rapporti esistenti tra le
specie animali e quella umana sono di «simbiosi», cioè di
convivenza (la parola, di origine greca, è composta da syn =
«con» e bios = «vita») in uno stesso ambiente e con
abitudini reciprocamente vantaggiose. Secondo una tipica evoluzione dei rapporti
tra uomo e ambiente naturale, l'equilibrio della simbiosi si è modificato
sempre più a favore dell'uomo. Questo processo, che è tuttora in
atto, ha portato l'allevatore moderno a modificare e in certi casi a determinare
la struttura e le funzioni delle specie domestiche, ma anche nello stadio
più primitivo dell'allevamento, l'uomo ha praticato all'interno di
ciascuna specie la selezione degli individui o delle razze che presentavano i
caratteri per lui più vantaggiosi.
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¦ ANIMALE DATAZIONE SITO ¦
¦ APPROSSIMATA ¦
+----------------------------------------------------------------¦
¦ capra 8050 a.C. Asiab (Iran) ¦
¦ " 7200 a.C. Gerico (Palestina) ¦
¦ " 6900 a.C. Nea Nikomedia (Macedonia occid.)¦
¦ cane 7500 a.C. Star Carr (Inghilterra) ¦
¦ " 7000 a.C. Argissa-Magula (Tessaglia) ¦
¦ " 6900 a.C. Sarab (Iran) ¦
¦ pecora 7200 a.C. Argissa-Magula (Tessaglia) ¦
¦ " 6900 a.C. Sarab (Iran) ¦
¦ " 6800 a.C. Jarmo (Iraq) ¦
¦ " 5950 a.C. Anzabegovo (Yugoslavia) ¦
¦ bovini 7000-6000 a.C. Catal Huyuk (Turchia) ¦
¦ " 6300 a.C. Obre (Yugoslavia) ¦
¦ " 4210 a.C. Luka-Vrublevetskaja (Yugoslavia)¦
¦ maiale 7000 a.C. Argissa-Magula (Tessaglia) ¦
¦ " 6500 a.C. Jarmo (Iraq) ¦
¦ cavallo 7000 a.C. Jarmo (Iraq) ¦
¦ " 4800 a.C. Anau (Turkistan) ¦
¦ asino IV millennio a.C. Basso Egitto ¦
¦ mulo 4350 a.C. Dereikva (Ucraina) ¦
¦ " 3670 a.C. Polling (Baviera) ¦
+----------------------------------------------------------------¦
¦ I più importanti animali domestici, la loro area di origine e ¦
¦ la datazione delle più antiche testimonianze. ¦
+----------------------------------------------------------------+
TECNICHE NEOLITICHE
Nel Neolitico, con la nascita
dell'agricoltura, iniziò anche la storia dei tentativi umani di sfruttare
le forze della natura. L'agricoltura stessa è il più riuscito tra
questi tentativi. Per poterla praticare però, l'umanità dovette
accumulare piuttosto rapidamente una quantità di conoscenze nei settori
più diversi per mettere a punto tutta una serie di nuove tecniche di
manipolazione della materia e per dotarsi di adeguate attrezzature.
Tanto
per cominciare, si potrebbe dire che l'uomo ha scoperto il terreno solo con
l'agricoltura; ne ha sperimentato l'importanza e lo ha sfruttato per le sue
esigenze vitali. L'agricoltore deve creare nel terreno condizioni tali da
permettere la germogliazione e la crescita delle piante alimentari che ha
selezionato. Per questa importante operazione sono state sviluppate diverse
tecniche ed attrezzature, alcune delle quali sono rimaste pressoché
immutate dagli inizi del Neolitico ai giorni nostri, mentre altre hanno subito
una profonda evoluzione.
L'agricoltore primitivo può intervenire sul
terreno in due modi: praticando un buco ed alloggiandovi la piantina scelta per
la coltivazione (sistema detto del «piantamento»), oppure rompendo il
terreno superficialmente, con tecniche diverse, e procedendo poi allo
spargimento dei semi («semina» in senso proprio). Si è discusso
a lungo per stabilire quale dei due sistemi fosse stato usato per primo, ma
entrambi appaiono antichissimi ed è possibile che le prime popolazioni
agricole abbiano adoperato ora l'uno ora l'altro a seconda del terreno e del
tipo di piante coltivate.
Il bastone da scavo ereditato dalle antiche
culture dei raccoglitori e costituito da un paletto di legno acuminato e
indurito sul fuoco a una estremità, fu probabilmente il primo strumento
dell'agricoltore neolitico. Il bastone da scavo poteva essere usato
indifferentemente per il piantamento o per la semina. Anch'esso ha subito una
lunga evoluzione e un'ampia diversificazione di forme: le diverse popolazioni lo
hanno perfezionato e adattato alle proprie esigenze. Così, nel tempo,
sono stati usati sia leggeri pioli azionabili con le sole mani sia bastoni di
notevoli dimensioni, sul tipo di quelli adoperati ancora oggi dalle popolazioni
agricole della Nuova Caledonia, e che debbono essere maneggiati da tre uomini
contemporaneamente. Gli Incas del Perù precolombiano lavoravano i campi
con un bastone provvisto di staffa che permetteva all'agricoltore di premere
contro il terreno con tutto il suo peso.
Dal bastone da scavo sono derivati
la zappa, la vanga, il piccone e tutti quegli attrezzi per la lavorazione del
terreno che richiedono un lavoro manuale diretto dell'agricoltore. Non bisogna
credere però che l'agricoltura sia iniziata ovunque con il bastone da
scavo e che solo in un secondo tempo sia entrata in uso la zappa. Le popolazioni
neolitiche della valle del Danubio per esempio, sono passate direttamente da
un'economia di raccolta ad una agricoltura con la zappa. Non si può
neppure dire che la zappa derivi sempre e necessariamente dal bastone da scavo,
giacché uno stesso strumento presente in culture diverse può aver
seguito differenti linee evolutive: le popolazioni agricole del Caucaso, per
esempio, sono arrivate alla zappa a partire non dal bastone da scavo, ma da
strumenti utilizzati per il disboscamento (cunei, marre, accette). Vi è
una sostanziale differenza tra l'agricoltura basata sul bastone da scavo e
quella basata sulla zappa: con la zappa infatti si possono sfruttare anche i
terreni coperti da una ricca cotica erbosa che sono invece inattaccabili dal
solo bastone. La zappa è dunque stata uno strumento fondamentale nella
colonizzazione della Terra da parte delle popolazioni agricole.
Nella
regione mediterranea il fattore più importante nel dissodamento della
terra era la necessità di trattenere l'umidità del terreno, ossia
di evitarne l'evaporazione durante la stagione secca. Questo obbiettivo
può essere raggiunto, tra l'altro, concimando il terreno con letame. Nei
primi tempi, però, c'era una assai scarsa disponibilità di questo
concime. Il solo metodo efficace e generalmente applicabile era di impedire
all'umidità di risalire lavorando il terreno in superficie con picconi,
zappe o vanghe in modo da polverizzarlo. La zappa, dal momento della sua
invenzione (che, come si vede, è molto antica) non ha mai perso la sua
importanza nell'agricoltura e non è mai diventata un strumento inutile,
superato o, come si dice con un antico termine latino, «obsoleto». Il
terreno lavorato con la zappa ha delle caratteristiche peculiari che non si
possono ottenere con la lavorazione con l'aratro o con quella meccanica; lo
stesso vale per la vanga. Su certi terreni, poi, specialmente in presenza di
forti pendii, dove la coltura si pratica su strette terrazze, la zappa e la
vanga rimangono ancora oggi gli unici attrezzi utilizzabili.
Un particolare
modo di usare la zappa o la vanga ha suggerito un'importante innovazione nelle
tecniche di lavorazione del terreno: entrambi gli attrezzi, trascinati sul
terreno, producono una traccia continua e danno al campo così lavorato
qualità agronomiche particolari. Gli agricoltori neolitici del Vicino
Oriente praticarono presto questo sistema e forse già nel quarto
millennio prima di Cristo misero a punto la semplice macchina agricola che
deriva da esso: l'aratro. Gli aratri antichi si possono in sostanza ricondurre a
due tipi fondamentali: l'aratro ricurvo, che appunto richiama l'immagine di una
zappa trascinata sul terreno, e l'aratro a vanga, dove l'elemento principale
è costituito da un lungo manico che si allarga alla base in forma,
appunto, di vanga.
Con la domesticazione e l'allevamento del bestiame
più grosso, si poté sfruttare per le operazioni di aratura la
forza degli animali. In India questo avvenne attorno al 2000 a.C.; a Cipro, in
Grecia e nel mondo mediterraneo in genere l'aratro si diffuse un poco più
tardi, attorno al 1500 a.C. In Cina le popolazioni agricole passarono molto
rapidamente all'agricoltura con l'aratro, che risulta già essere usato
attorno al 1000 a.C. Nell'età del ferro l'aratro era diffuso in tutto il
Vecchio Continente: si trattava in genere di modelli molto semplici, piuttosto
simili tra loro. Nelle Americhe, invece, dove erano del tutto assenti animali di
grossa taglia adatti al traino, l'aratro non ebbe modo di svilupparsi.
Come
attaccare gli animali all'attrezzo da lavoro (aratro o carro) evitando eccessivi
sprechi di energia è rimasto per molto tempo un grosso problema. Un
sistema assai primitivo era quello di legare l'aratro alle corna dei buoi, ma
è evidente che in questa maniera la potenza degli animali non veniva
sfruttata che in piccola parte. Abbastanza presto fu messo a punto il
«giogo», un attrezzo di legno costruito in modo da adattarsi al collo
degli animali, a cui veniva fissato mediante un apposito sottogola. Per gli
asini e i cavalli si usava un collare che però, poggiando sulla trachea,
avrebbe soffocato le bestie qualora queste avessero adoperato nel traino tutta
la loro forza. Un deciso miglioramento nell'utilizzazione dell'energia animale
non sarebbe stato realizzato che alla fine del primo millennio d.C.
Dal
punto di vista economico e da quello alimentare uno dei risultati più
importanti della rivoluzione attuata dai coltivatori neolitici è
rappresentato dalla domesticazione dei cereali. Questi vegetali, di sapore
gradevole e di alto potere nutritivo, sono relativamente facili da conservare e
possono essere sottoposti a diverse manipolazioni: la triturazione, la
panificazione, la fermentazione, ecc. Ciascuna di queste manipolazioni esige
però tecniche particolari e il possesso di una strumentazione adeguata.
La domesticazione dei cereali, insomma, non ha costituito un'innovazione isolata
e improvvisa, ma ha comportato l'elaborazione di tutto un complicato sistema
tecnico-produttivo che, a partire dalle fondamentali esperienze dell'economia di
raccolta, ha richiesto tempi molto lunghi, nell'ordine dei millenni, per essere
messo definitivamente a punto.
Anche il semplice raccolto e la
conservazione dei grani richiedevano attrezzature specifiche. Le messi venivano
tagliate dagli agricoltori neolitici con l'aiuto di falci costituite da una
costola d'osso o di legno su cui erano fissate una serie di lame di selce
levigate, dotate di un bordo assai tagliente e più robusto di quanto fino
allora si fosse riusciti a ottenere. Per conservare i grani occorrevano
recipienti e magazzini adatti. Per quanto riguarda i primi, anche le popolazioni
di raccoglitori ne avevano di diversi tipi, naturali come zucche, uova di
struzzo, ecc. oppure fabbricati appositamente come sacche di pelle, vasi in
pietra, scodelle di legno, canestri di fibre vegetali intrecciate. Ma un vero e
proprio salto di qualità in questo campo si ebbe soltanto con la nascita
dell'agricoltura e con l'adozione da parte dei coltivatori neolitici di un
materiale completamente nuovo: la ceramica.
Produzione ceramica ed economia
agricola sono strettamente connesse. Si conoscono ceramiche che risalgono al
Paleolitico superiore e ci sono popolazioni moderne che, pur non praticando
l'agricoltura, fabbricano ceramiche; è certo però che solo con la
cultura del villaggio neolitico l'uso della ceramica si è affermato
decisamente. Agli inizi del Neolitico, in un periodo chiamato appunto
«Protoneolitico» o «Neolitico preceramico», la lavorazione
della pietra aveva raggiunto un tale livello di perfezione, che da un unico
blocco di pietra si sapevano ricavare ciotole e vasi finissimi; proprio per
questo in certe antiche sedi agricole, come Gerico e altri siti della Palestina,
per lungo tempo non si è sentita la necessità di sperimentare
tecniche e materiali nuovi per la fabbricazione di recipienti. Nella maggior
parte dei casi, tuttavia, con l'apparire di un'agricoltura di tipo stanziale, i
recipienti in terracotta hanno cominciato a figurare nel corredo domestico del
coltivatore. Tra le manipolazioni a cui possono essere soggetti i cereali, la
triturazione e la macinazione dei grani allo scopo di ricavarne farina
costituiscono una delle più caratteristiche operazioni delle
società agricole. I più antichi procedimenti erano molto
rudimentali: il seme veniva semplicemente pestato e frantumato a colpi di
pietra. Molto presto comparvero piccole macine composte da un piano di pietra in
cui era ricavato un affossamento che ospitava i semi, i quali venivano triturati
dall'azione di una pietra levigata che si adattava alla forma dell'incavo.
Più tardi si costruirono utensili più raffinati, come il mortaio
dotato di pestello e il rullo di pietra usato dalle donne dell'antico Egitto.
Solo in epoca relativamente recente (forse non più di 2300 anni fa) si
diffuse nel bacino del Mediterraneo la macina rotante, costituita da una pesante
mola cilindrica in pietra che ruotando orizzontalmente su un'altra mola riduceva
il grano in farina per effetto dello sfregamento. La macina girevole presentava
un enorme vantaggio: a differenza dei movimenti complicati richiesti dai
procedimenti più antichi, la semplicità e la regolarità del
suo moto permetteva che il lavoro dell'uomo fosse sostituito da quello degli
animali o addirittura da una forza inanimata, ancora più potente: quella
dell'acqua corrente o quella del vento.
Agricoltura primitiva in Cina
LA FERMENTAZIONE
Una grande importanza hanno sempre avuto
nell'economia delle popolazioni agricole (e pastorali) i processi di
fermentazione. La fermentazione è un insieme di reazioni chimiche che
sono provocate dagli enzimi prodotti da particolari microrganismi (muffe,
lieviti o batteri) detti appunto «fermenti»: consiste nella
decomposizione di determinate sostanze organiche, come l'amido dei cereali, gli
zuccheri (che appartengono alla classe dei carboidrati) della frutta ecc., e
nella loro trasformazione in altre sostanze che hanno un notevole valore
nell'alimentazione umana. Processi del tutto simili, che danno luogo però
a prodotti non utilizzabili immediatamente dall'uomo, sono quelli detti di
«putrefazione».
Le fermentazioni più comuni sono quella
alcoolica (nella quale gli amidi e gli zuccheri, passando attraverso una dozzina
di stadi intermedi, a ciascuno dei quali presiede un diverso enzima, si
trasformano in alcool etilico e anidride carbonica) e quella acetica (dove
è l'alcool etilico che si trasforma in acido acetico, ossia in aceto).
Della stessa natura sono le reazioni che fanno inacidire e coagulare il latte e
che vengono utilizzate nella produzione di formaggi e altri derivati del latte.
La conoscenza e il controllo dei processi di fermentazione è molto
antica. Così, ad esempio, la scoperta del fatto che i semi del grano e
dell'orzo lasciati in infusione nell'acqua producono dopo qualche tempo un
liquido scuro, schiumoso, gradevole al palato e leggermente inebriante (la
birra) sembra perdersi, come si suol dire, nella notte dei tempi. C'è
addirittura chi immagina che il modo di fabbricare la birra sia stato trovato
prima ancora dell'avvento dell'agricoltura e che proprio il bisogno di
garantirsi stabilmente la disponibilità di tale bevanda abbia indotto i
raccoglitori nomadi del Vicino Oriente ad adottare un modo di vita
sedentario.
La birra, insomma, non sarebbe un prodotto della civiltà
agricola: al contrario, sarebbe stato il piacere di bere la birra a determinare
la nascita della civiltà agricola. Il che quasi certamente non è
vero, ma è divertente.
LA CERAMICA
I recipienti di terracotta sono più
fragili rispetto a quelli conosciuti prima, e perché possano venire
adottati con una certa larghezza occorre che le tecniche di cottura (tecniche
del fuoco, fonti di combustibile, focolai, forni, ecc.) siano già ad un
livello abbastanza elevato; basti pensare che per ottenere una terracotta
sufficientemente resistente bisogna cuocerla a temperature intorno ai 500-600
gradi C. Non è facile come sembra costruire un forno che produca tali
temperature: il comune fuoco di legna, ad esempio, sviluppa un calore che non
supera i 200 gradi. Bisogna ricorrere a particolari accorgimenti, come una forte
aerazione del forno mediante mantici e un'adeguata schermatura dello stesso per
evitare dispersioni di calore.
La ceramica costituisce la migliore traccia
della presenza di culture scomparse, anche perché è un materiale
che non si deteriora con il tempo: i vari tipi di ceramiche e terraglie hanno
per l'archeologo la stessa importanza che hanno per lo studio del Paleolitico la
presenza di industrie litiche. I primi recipienti di ceramica fabbricati dai
neolitici si presentano già con una perfezione di forme e di lavorazione
davvero sorprendente: in molte località sono decorati e dipinti e
perfettamente impermeabili. D'altra parte contemporaneamente si trovano sistemi
di lavorazione molto rozzi che talvolta paiono succedere a metodi molto
più evoluti, come se ci si trovasse di fronte ad una regressione della
tecnica.
Proprio per i molteplici fattori che condizionano l'uso e la
fabbricazione delle ceramiche (tecniche, destinazione degli oggetti, fattori
economici, ecc.), l'interpretazione archeologica dei ritrovamenti risulta molto
difficile. I nostri antenati usavano vari tipi di vasellame, di differenti forme
e qualità, e proprio come noi apprezzavano i recipienti di ceramica non
solo per la loro utilità, ma anche per la fattura più o meno
accurata, per la decorazione più o meno raffinata ecc., e insomma per la
loro bellezza. Anche allora produrre un bel vaso richiedeva più lavoro e
quindi costava di più. In caso di rottura i pezzi più pregiati
venivano attentamente e ripetutamente riparati (sono stati ritrovati vasi molto
belli riparati anche tre o quattro volte), mentre il vasellame comune, se si
rompeva, veniva di solito buttato via.
Le prime decorazioni usate per i
manufatti ceramici erano costituite da motivi impressi sulla terracotta ancora
fresca prima della cottura usando le dita, le unghie, il bordo delle conchiglie
o simili; in seguito si passò a un tipo di decorazione graffita oppure
«a ceramica risparmiata», che consisteva nello scavare dei solchi
nell'argilla cruda del vaso asportandola in parte: talvolta questi solchi erano
poi riempiti con coloranti minerali resistenti al calore della successiva
cottura. Solo più tardi si adottò la verniciatura del pezzo,
sempre prima della cottura: i tipi di decorazione dipinta sono numerosissimi, a
seconda della cultura della popolazione che produceva il manufatto.
Un
metodo adottato abbastanza presto per ridurre la porosità della ceramica
e per migliorare l'estetica del prodotto è la cosiddetta
«ingobbiatura»; il vaso veniva ricoperto con una miscela molto fluida
di argilla pura e acqua, ottenendo a cottura ultimata una superficie molto
lucida, a volte simile nell'aspetto al metallo.
Talvolta questa miscela era
colorata, in modo da costituire una vera e propria
decorazione.
LA TESSITURA
Già le popolazioni di
cacciatori-raccoglitori conoscevano la tecnica della fabbricazione di funi e di
recipienti con fibre vegetali o strisce di pelle o tendini di animali. Con
l'avvento del Neolitico da queste tecniche di intreccio derivò la
fabbricazione di tessuti con fibre animali o vegetali. Non è escluso che
la tessitura fosse conosciuta anche da culture precedenti a quella degli
agricoltori stanziali del Medio Oriente; tuttavia i più antichi reperti
di manufatti tessili insieme con canestri intrecciati provengono dai villaggi
dell'Iran, dell'Iraq, della Palestina e dell'Egitto (5000 a.C.).
Fibre
vegetali come il lino, il cotone e la canapa furono utilizzate prima dei
materiali di provenienza animale come lana e seta. Infatti mentre uno dei primi
manufatti in lana, ritrovato in Scandinavia, risale solo al 1000 a.C., il lino e
il cotone erano conosciuti già nel 3000 a.C. dalle culture dell'Indo e
dell'Egitto predinastico. Per essere tessute, le fibre, vegetali o animali,
devono essere ridotte in fili continui e per essere filate devono essere
opportunamente lavorate con trattamenti più o meno complicati. Le fibre
del lino, per esempio, vengono separate dal fusto legnoso prima mediante
macerazione e poi mediante raschiamento; infine devono essere pettinate. Le
fibre di lana devono essere lavate, asciugate, battute, cardate o
pettinate.
La filatura consiste nello stirare le fibre attorcigliandole
insieme: nella sua versione più elementare questa operazione può
essere eseguita con le sole mani, strofinando cioè le fibre fra le palme
oppure strofinandole con una mano lungo la coscia e tirandole con l'altra mano
in modo da non lasciarle aggrovigliare. Per impedire l'aggrovigliamento è
sufficiente avvolgere il filo su un bastoncino: il fuso, un attrezzo
antichissimo, ma ancora largamente usato qualche decennio fa nella produzione
domestica di filati. Per avvolgere e stirare il filo, il fuso (che presenta la
caratteristica forma «affusolata», allungata e assottigliata alle
estremità, dette «cocche»), viene tenuto sospeso e fatto
ruotare con la mano: in molti casi il fuso è dotato di un peso a forma di
disco che serve a conservare per un certo tempo il moto di rotazione.
Le
tecniche di tessitura hanno registrato una svolta decisiva con l'invenzione del
telaio e la sua successiva evoluzione avvenuta nel Vicino Oriente tra il IV e il
II millennio a.C. L'insieme dei fili che vengono tesi sul telaio in senso
longitudinale si chiama «ordito». La tessitura consiste nel riempire
l'ordito con la «trama», ossia nell'inserire trasversalmente per mezzo
della «spola» (una sorta di bobina inserita in un dispositivo a forma
allungata detto «navetta»), il filo della trama tra i fili
dell'ordito. Si chiama «asta dei licci» la struttura rettangolare in
legno o metallo a cui sono fissati alternativamente i fili dell'ordito, e che
alzandosi apre lo spazio attraverso il quale passa la navetta con il filo della
trama.
L'arte della tessitura raggiunse un livello notevolissimo nella
civiltà egiziana, durante la quale venivano lavorati panni di lino molto
leggeri, resistenti e compatti. Queste tele, che grazie al clima del deserto si
sono conservate bene fino ai nostri giorni, hanno una trama molto fitta
(presentano cioè un grande numero di fili intessuti), che implica finezza
di lavorazione ed è garanzia di resistenza: in un tessuto di lino
ritrovato nella tomba di Tutankhamon sono stati contati 112 x 32 fili a
centimetro, che è quel che si dice un «titolo»
altissimo.
Spesso nei nostri discorsi quotidiani usiamo termini tratti
dalle operazioni di filatura e tessitura. Il gatto che ronfa beato «fa le
fusa», ossia fa un rumore simile a quello dei fusi che girano («le
fusa» è un'antica forma di plurale, che sopravvive solo in questa
locuzione). «Ordire» e «tramare» hanno acquistato per
estensione il valore di «macchinare», «complottare» e
simili; nello stesso senso si dice «tessere le fila» di una
congiura.
La «trama» di un romanzo o di un film è
l'insieme dei fatti narrati, per la comprensione dei quali è
indispensabile non perdere «il filo»; in un significato analogo si
parla di «intelaiatura» di un racconto.
Nella tessitura la
navetta (e la spola) vengono spostate continuamente da un bordo all'altro della
stoffa: per questo l'andare e venire ripetutamente da un luogo a un altro si
dice «fare la spola» e per questo, anche, si chiamano «treni
navetta» quei convogli locali che percorrono sempre gli stessi tratti
(ossia «fanno la spola» tra due stazioni).
LA COLONIZZAZIONE AGRICOLA
Primo fondamentale problema dell'agricoltore
è stato in ogni tempo e in ogni luogo quello dello spazio.
All'agricoltura primitiva, in particolare, furono necessari sempre nuovi terreni
da sfruttare perché, ignorando la concimazione del terreno e la rotazione
delle colture, esauriva rapidamente la fertilità del suolo. Si suppone
infatti che la vera e propria agricoltura stanziale sia stata preceduta da una
agricoltura seminomade o itinerante, nella quale l'occupazione di uno stesso
sito non poteva durare che il tempo di qualche raccolto. La maggiore
disponibilità di cibo e la dieta più equilibrata assicurate
dall'economia agricola determinarono nel Neolitico un sensibile aumento della
popolazione, il quale, a sua volta, spinse le popolazioni di agricoltori a
colonizzare nuove terre.
Il carattere itinerante dell'agricoltura primitiva
moltiplicava le occasioni di incontro e di scambio culturale tra gruppi umani e
il contatto fra genti che sperimentavano per la prima volta rudimentali tecniche
agricole e altre che ne avevano invece lunga esperienza, portava verosimilmente
all'«assorbimento» delle prime da parte delle seconde. Non si deve
pensare necessariamente a forme di imposizione o di assoggettamento violento:
l'estendersi su aree sempre più vaste di un'economia di tipo agricolo fu
più un fenomeno di circolazione di idee e di imitazione di modi di vita,
che un fenomeno di conquista. In verità, è proprio a questo
periodo che risalgono le prime tracce di un'attività in cui il genere
umano avrebbe poi bruciato immense risorse: la guerra. Sembra però che
queste «guerre» primitive scoppiassero soltanto (o prevalentemente)
tra popolazioni economicamente e socialmente sviluppate. Non è difficile
immaginare che l'eventuale scontro fra una popolazione tecnologicamente avanzata
ed una più debole si dovesse concludere con il trionfo della prima. Data
però l'impossibilità di un'efficace resistenza da parte della
seconda, pare probabile che a tale conclusione si giungesse in forme, se non
pacifiche, almeno silenziose, tali cioè da non lasciare segni evidenti di
conflitto.
I primi insediamenti agricoli a carattere permanente sorsero in
prossimità di corsi d'acqua o nelle oasi dove si trovavano terreni
freschi e facili da lavorare. La scelta di questi insediamenti è stata
così felice che dal Neolitico ad oggi non sono mai stati completamente
abbandonati. È il caso della valle del Nilo, della Mesopotamia, delle
regioni del Gange, dell'Indo e dello Yang-tse-kiang, sedi di grandi
civiltà, dette appunto «fluviali» per il ruolo assolutamente
centrale che il fiume ha avuto nella loro evoluzione. Fu forse questa
stabilità che permise agli agricoltori di queste antiche civiltà
di realizzare progressi molto rapidi nell'attrezzatura e nei metodi di
coltivazione e di selezionare cereali e altre piante commestibili con un
successo tale che sino a tempi molto recenti l'umanità non è stata
in grado di apportare miglioramenti sostanziali al loro lavoro.
Al fine di
aumentare la superficie coltivata sfruttando terreni lontani dai corsi d'acqua o
per permettere una coltivazione intensiva dei terreni alluvionali, fin dalle
età più remote le popolazioni agricole hanno elaborato sistemi di
irrigazione, di raccolta delle acque con cisterne, di condotte forzate, ecc. In
alcuni casi, invece, di acqua ce n'era fin troppa, ed era necessario eliminare
l'eccesso di umidità mediante adeguati sistemi di drenaggio del
terreno.
Da quando aveva iniziato a coltivare la terra, l'uomo doveva aver
capito l'importanza di regolare le acque sia per rendere meno dannosi gli
effetti degli acquazzoni e delle piene dei fiumi, sia per non far mancare in
caso di bisogno l'acqua alle colture. Nelle regioni a clima subtropicale, dove
brevi stagioni di intense precipitazioni si alternano a lunghi periodi di
siccità, è indispensabile disporre di riserve d'acqua con cui
irrigare i campi nella stagione asciutta. Nei climi temperato-umidi, invece, in
cui piove in tutte le stagioni, l'irrigazione è un elemento ausiliario
che aumenta la produttività del suolo e consente di mettere a coltura
intensiva vasti terreni di pianura.
Le tecniche di irrigazione oltre che
dal clima dipendono dalla natura del terreno, dal tipo di vegetazione, e da
altri fattori naturali; fondamentali sono in ogni caso i fattori umani, come il
tipo di organizzazione sociale, le condizioni economiche, le forme in cui nelle
comunità agricole viene gestito il potere. Nelle antiche civiltà
fluviali si conoscevano diversi sistemi di irrigazione. Quello dei bacini era
usato specialmente in Egitto. I bacini venivano costruiti intersecando argini di
terra paralleli al fiume con argini trasversali, in modo che l'intera vallata
risultava divisa in una sorta di scacchiera. Al ritirarsi della piena i bacini
si svuotavano.
In Egitto il sistema funzionava bene anche perché le
piene del Nilo hanno carattere regolare e coincidono coi tempi della semina e
del raccolto. In Mesopotamia invece l'inondazione annuale ha carattere violento,
non di rado catastrofico, e l'acqua si ritira in giugno proprio quando sarebbe
più necessaria perché il calore del sole inaridisce il terreno.
Qui dunque il problema era di trattenere l'acqua in modo da farla affluire con
continuità ai campi. Presso i Sumeri il re si riservava il compito, che
si pensava gli fosse stato affidato dagli Dei, di occuparsi della costruzione e
manutenzione delle opere di irrigazione.
Data la scarsa conoscenza del
processo di drenaggio del terreno, tutte le tecniche di irrigazione primitive
comportavano alla lunga il rischio di una irreversibile perdita di
fertilità per «salinizzazione», cioè il dilavamento
dello strato di humus, che viene sciolto e asportato dall'acqua, ed il deposito
di sali insolubili. È il caso della Mesopotamia, famosa
nell'antichità per le intense coltivazioni e per le imponenti opere di
irrigazione, e il cui territorio, corrispondente all'attuale Iraq, è
coltivato oggi solo per un 20 per cento. Anche la regione corrispondente
all'attuale Yemen, che nell'antichità era conosciuta come «Arabia
felice», per un eccessivo carico agricolo e per la progressiva
salinizzazione dei terreni è diventata l'«Arabia
pietrosa».
Una tecnica messa a punto già nelle epoche
più antiche ed applicata ancor oggi con successo nel bacino Mediterraneo
per supplire ai periodi di siccità senza far ricorso all'irrigazione,
è quella conosciuta sotto il nome inglese di dry farming (in italiano:
«aridocoltura»). Consiste nel lavorare superficialmente il terreno
subito dopo la stagione umida, in maniera che la rottura delle vie capillari e
l'asportazione della vegetazione spontanea imprigionino e conservino intatta
l'umidità negli strati più profondi del terreno.
Oltre che
dai terreni alluvionali, dai bordi dei fiumi, fertili ed adatti alla
coltivazione, e dalle zone di pianura rese coltivabili grazie all'irrigazione,
la fame di spazio delle popolazioni agricole fu soddisfatta dalla colonizzazione
delle zone montuose. Grazie ad un duro lavoro di terrazzamento, alla creazione
cioè di brevi spazi pianeggianti artificiali, l'agricoltore poté
sfruttare le località meglio esposte, in ambienti dove nessuna
coltivazione sembrava possibile.
Documenti che risalgono a 1500 anni prima
di Cristo parlano dei muri di pietra a secco riempiti di terra fertile che
digradavano sulle pendici montuose del Libano: nell'area mediterranea è
forse questo l'esempio più antico di terrazzamento. La civiltà
agricola cinese ha conosciuto questa tecnica già nel terzo millennio a.C.
per la coltivazione del riso. Nel Nuovo Mondo invece i più antichi
terrazzamenti conosciuti vennero costruiti nel Messico attorno al VI secolo
a.C.
Nelle zone a clima temperato e in quelle via via più fredde, i
primi agricoltori si trovarono dinanzi le immense foreste del periodo
postglaciale. In alcune aree esse erano ancora vergini; altrove l'ambiente
naturale aveva conosciuto l'opera dei cacciatori-raccoglitori. Tale era ad
esempio (come si è potuto stabilire attraverso le analisi dei pollini
fossili) l'aspetto della pianura padana quando, intorno al 2900 a.C., vi si
insediarono le prime tribù di agricoltori stabili. Da allora lentamente
l'uomo ha sostituito al bosco la coltura, trasformando completamente il
paesaggio.
A grandi linee si possono distinguere due principali metodi di
disboscamento per uso agricolo: l'uno più primitivo, legato agli
insediamenti in foreste asciutte o generalmente ad una agricoltura seminomade;
l'altro più complesso e legato a centri agricoli di colonizzazione
stabiliti in zone umido-fredde. Il primo metodo è quello applicato dagli
agricoltori primitivi della fascia costiera mediterranea, così
intensamente che già ai tempi dell'Impero romano molte regioni come la
Grecia e il Libano erano prive di vegetazione forestale di qualche importanza.
L'agricoltore all'inizio della stagione secca tagliava con gli attrezzi
più o meno perfezionati di cui disponeva un settore di bosco, solitamente
marginale, lasciandone però in piedi gli alberi più grossi.
Nell'estate il sole seccava la vegetazione restante a cui l'uomo appiccava il
fuoco ottenendo la liberazione totale del terreno e una concimazione dello
stesso grazie alle ceneri ricche di sali che vi si depositavano (è la
pratica del «debbio» che vediamo tuttora usata in estate, quando nei
campi si dà fuoco alle stoppie).
Agli inizi della stagione umida si
seminava e col ritorno della buona stagione si aveva un primo raccolto. Dopo
pochi di questi cicli di coltivazione, però, il terreno doveva essere
abbandonato perché si degradava rapidamente ed anzi in esso non riusciva
neppure più a instaurarsi la vegetazione boschiva iniziale.
Questa
tecnica di disboscamento è sopravvissuta in molte regioni europee fino al
XVIII secolo.
Il secondo metodo di disboscamento è quello attuato,
per esempio, dagli agricoltori medioevali dell'Europa centrale, all'interno
della Foresta Nera, con la creazione di radure prive di alberi che venivano
ampliate secondo la necessità a macchia d'olio, in forma cioè di
un cerchio sempre più ampio.
L'agricoltore doveva tagliare gli
alberi, poi liberare il terreno dalle radici e infine predisporlo alla
seminagione; ma doveva soprattutto conoscere tecniche (concimazione, rotazione,
ecc.) che permettessero uno sfruttamento continuo ed ininterrotto delle
località colonizzate. Certi autori ritengono che questo metodo sia
divenuto di uso comune, almeno nell'area europea, solo con il Basso Medio Evo
(ossia dopo il Mille), quando certe attrezzature agricole raggiunsero una
più ampia diffusione ed una maggiore efficienza.
CONCIMAZIONE E ROTAZIONE
Non è possibile stabilire
precisamente quando gli agricoltori hanno cominciato a mettere in opera quel
gruppo di tecniche che permettono di regolare la fertilità del terreno e
che sono fondamentali nell'agricoltura moderna: le cosiddette tecniche di
concimazione. Con la concimazione fu finalmente possibile reintegrare almeno in
parte la fertilità del terreno coltivato, rendendo meno urgente la
necessità di trovare nuovi terreni da sfruttare. Quando si giunse ad
associare la concimazione alla rotazione agricola lo sfruttamento di un
appezzamento poté essere condotto almeno teoricamente
all'infinito.
Probabilmente la prima tecnica di concimazione applicata fu
quella del «sovescio», consistente nell'interrare parti di vegetali e
la stessa vegetazione spontanea al momento della lavorazione del terreno.
L'aumento artificiale delle sostanze organiche presenti negli strati
superficiali è particolarmente notevole se le piante interrate sono delle
leguminose (fagioli, fave, piselli, ecc.): questo tipo di concimazione era
sicuramente già applicato dalla civiltà sicula nel II millennio
a.C.
È possibile che quasi contemporaneamente al sovescio sia
iniziato l'uso di interrare escrementi animali ed umani che aumentavano il
contenuto batterico del terreno e vi riportavano notevoli quantità di
sostanza organica. L'uso dello stallatico è evidentemente legato
all'agricoltura mista, che pratica cioè anche l'allevamento del bestiame.
Le tecniche di concimazione sono diventate molto elaborate in quelle colture
dove l'allevamento si conduce al chiuso (stalle): con questo sistema era infatti
possibile applicare una serie di accorgimenti per sfruttare al massimo il
concime (lettiera di vegetali nella stalla, concimaie, fosse di scolo, ecc.).
Quanto alla rotazione, è possibile che già i primi agricoltori
avessero constatato l'opportunità di interrompere per un certo periodo i
cicli coltivativi mantenendo però sempre il terreno lavorato e sgombro
dalla vegetazione spontanea. Il campo così trattato si chiama
«maggese». Le varie civiltà agricole svilupparono infiniti
sistemi per far «riposare» i terreni, cercando però sempre la
maniera per cui il riposo non sottraesse completamente l'appezzamento alla
produzione, e ciò soprattutto nelle zone più fertili. La tecnica
di variare il tipo di coltivazione alternando ad esempio al grano l'erba medica,
in modo da sfruttare diversamente un campo già in parte esaurito,
è diffuso nelle regioni che hanno conosciuto l'agricoltura greca e
romana, ma forse questo tipo di rotazione era già praticato dagli antichi
coltivatori della Mezzaluna fertile, come sembrano testimoniare alcune analisi
polliniche.
LA RUOTA E IL CARRO
Il principio del moto rotativo è alla
base del funzionamento di quasi tutte le macchine quali oggi le conosciamo, ma i
congegni costruiti in base à questo principio sono entrati relativamente
tardi a far parte dell'equipaggiamento dell'uomo: mentre l'inizio della
costruzione degli utensili risale a 2,5 milioni di anni fa la prima
testimonianza diretta relativa all'uso delle ruote, cioè di corpi
cilindrici imperniati al centro e liberi di ruotare, riguarda la ruota del
vasaio, di cui ci restano frammenti di un esemplare, ritrovati ad Ur, in
Mesopotamia, databili al 3000 o 3500 a.C. Tuttavia l'uso della ruota del vasaio
in epoche più antiche è provato dalle caratteristiche striature
che presentano i vasi costruiti in questo modo e che sono riconoscibili anche su
piccoli frammenti.
Più o meno contemporanea all'introduzione della
ruota del vasaio è la comparsa del veicolo a ruote, il carro. Possiamo
pensare il carro come un'evoluzione della slitta; infatti proprio come una
slitta a ruote ce lo mostra la prima rappresentazione che ne possediamo, uno
schizzo assai sommario trovato in Mesopotamia e databile intorno al 3500 a.C.
Come semplice mezzo di trasporto il carro aveva un limite: presupponeva
l'esistenza di strade, e sui lunghi percorsi, anche quando vi fu un'efficiente
rete stradale, il trasporto carreggiato risultò sempre piuttosto costoso,
senz'altro molto più costoso di quello fluviale o marittimo. Il carro
leggero tirato da cavalli fu invece un'arma da guerra molto efficace. Si pensa
che sia stato inventato dagli Hurriti, una popolazione probabilmente indoeuropea
che fu assorbita dagli Ittiti, i quali lo diffusero nel Medio e Vicino Oriente.
In possesso degli eserciti ittiti, che avevano addestrato il cavallo e
possedevano armi in ferro, i carri da guerra capaci di ospitare tre o quattro
uomini dovettero portare non poco scompiglio fra le truppe babilonesi ed
egiziane che ancora ne ignoravano l'uso. L'importanza attribuita al carro fin
dalla sua introduzione ci è rivelata dalle numerose rappresentazioni e
dai modelli in creta ritrovati nelle tombe. Il prestigio legato al suo possesso
ci è testimoniato dagli esemplari ritrovati in numerose tombe reali nelle
città mesopotamiche Kish, Susa e Ur, risalenti al III millennio
a.C.
LE PRINCIPALI AREE AGRICOLE
La diffusione dell'agricoltura non è
avvenuta in modo uniforme in tutto il mondo. A parte i condizionamenti naturali
(clima, temperatura, qualità del terreno, ecc.), le tecniche agricole si
sono differenziate sotto la spinta prevalente di fattori culturali. Dal punto di
vista culturale il frutto più importante dell'antica economia di caccia e
raccolta era forse l'intima conoscenza del proprio territorio che gli uomini
acquisivano spiando e inseguendo la selvaggina o selezionando con cura minuziosa
nella raccolta dei vegetali spontanei le specie utili dalle altre. Queste
conoscenze furono ereditate dai primi agricoltori, ed anzi, come si è
detto, hanno fornito la base indispensabile delle prime pratiche agricole.
Quando un gruppo di raccoglitori o di coltivatori primitivi veniva a conoscenza
di nuove tecniche agricole e decideva di adottarle, le modificava alla luce di
questa antica dimestichezza con il proprio ambiente. Così l'agricoltura
nel corso della sua espansione ha assunto tratti sempre nuovi, peculiari delle
singole regioni, dando vita a una straordinaria varietà di tradizioni
agricole locali.
Ciò che effettivamente si è diffuso in modo
relativamente uniforme su grandissime aree, passando da una regione all'altra
secondo percorsi che si sono potuti ricostruire abbastanza precisamente, sono,
più che le specifiche pratiche agricole, le specie vegetali che le
popolazioni neolitiche hanno scelto di addomesticare e coltivare. Di queste
grandi aree se ne distinguono almeno tre, che ancora oggi sono facilmente
riconoscibili, nonostante il generale rimescolamento culturale avvenuto negli
ultimi quattro secoli: l'area del grano (Asia occidentale ed Europa), quella del
riso (Asia orientale) e quella del mais (Americhe). Grano, riso e mais
appartengono tutti a quel gruppo di vegetali, i cereali, che forniscono tuttora
la quota più consistente dell'alimentazione dell'uomo.
Il grano e
l'orzo sono tra le più antiche piante coltivate dall'uomo: per il loro
alto valore nutritivo e l'ottimo rendimento (ossia la possibilità di
ottenere un buon raccolto da un modesto quantitativo di semente) hanno
costituito nel corso dei millenni (e costituiscono ancora) una delle principali
risorse alimentari del genere umano. Le più antiche testimonianze di
agricoltura granaria sono state trovate soprattutto nella Mezzaluna fertile,
l'area geografica che va dalle coste libanesi fino alle rive del Golfo Persico,
passando per la Siria e la Mesopotamia. Le condizioni climatiche e geologiche di
quelle zone hanno favorito la conservazione di reperti botanici che invece in
altre parti del mondo sono scomparsi. Ciò ha indotto a credere che la
coltura del grano fosse nata in quell'area, e che si fosse poi diffusa nel resto
del Vecchio Mondo. Recenti ricerche suggeriscono invece che essa sia stata
praticata in diverse parti del continente euroasiatico contemporaneamente alla
Mezzaluna fertile o subito dopo.
Agli inizi le forme selvatiche di grano
presentavano una spiga molto fragile, difficile da raccogliere perché
quando giungeva a maturazione si spezzava e spargeva i semi sul terreno. Gli
agricoltori primitivi raccoglievano essenzialmente le spighe più
resistenti, quelle che non si rompevano, e perciò nella semina successiva
usavano i chicchi che provenivano da queste stesse piante. In questo modo,
intenzionalmente o no, effettuavano una vera e propria selezione, il cui
risultato fu la comparsa di specie nuove come il Triticum dicoccum, che è
il grano ancora oggi coltivato, e l'orzo distico (Hordeum
distichum).
Gerico è un esempio di una serie di siti cresciuti
presso corsi d'acqua, i cui abitanti, che costruivano villaggi stabili,
coltivavano su terreni alluvionali senza preparare prima il suolo alla coltura
dei cereali mediante aratura, livellatura e concimazione. Le popolazioni
agricole del Neolitico hanno selezionato e coltivato una grande quantità
di specie di grani, più o meno produttive, più o meno ricche di
valore nutritivo, scelte in funzione della loro adattabilità ai diversi
climi e ai diversi terreni, nonché delle abitudini produttive e
alimentari delle singole popolazioni. Così quando la coltivazione del
grano e dell'orzo giunse nel centro dell'Europa sia filtrando dai centri
costieri all'interno del continente, sia lungo l'importante percorso della valle
del Danubio, una «strada» naturale tra il Medio Oriente e le pianure
della Germania, si svilupparono precocemente colture di cereali sconosciute alle
civiltà agricole meridionali. La segale, ad esempio, che aveva cominciato
la sua storia nel Nord come erbaccia che cresceva ai bordi dei primi campi di
frumento, penetrò nel mondo romano solo verso il I secolo d.C. In Africa
e nelle regioni caldoaride dell'Asia meridionale, dal Neolitico ad oggi, hanno
trovato larghissima diffusione cereali di qualità inferiore quali il
sorgo e il miglio.
Molti dei cereali che l'umanità ha coltivato
dagli inizi dell'agricoltura hanno subito nel tempo diverse destinazioni
alimentari ed hanno conosciuto una diversa fortuna. Ad esempio una parte dei
famosi raccolti di grano che si facevano nella Mesopotamia antica venivano
destinati alla fermentazione di bevande alcoliche. Nell'Europa
centro-settentrionale l'orzo, sotto la pressione di nuove varietà di
frumento che si adattavano meglio sia all'ambiente sia a questo genere di
manipolazione, non è stato più usato per la panificazione e ha
continuato ad essere consumato dall'uomo in forma di zuppe oppure è stato
destinato all'alimentazione del bestiame. La stessa cosa è successa
nell'Europa meridionale per il miglio e il panico quando, verso il XVII secolo
d.C., vennero progressivamente sostituiti dal mais, che, importato dal Nuovo
Mondo, presentava una resa assai più alta.
Anche il riso, una pianta
su cui si fonda ancora oggi la sussistenza di un terzo dell'umanità,
è una conquista degli agricoltori neolitici. Originaria di zone secche,
la sua domesticazione da parte dell'uomo l'ha condotto, nel corso dei secoli, a
diventare un vegetale semiacquatico. Con questa tecnica di coltivazione
l'agricoltore asiatico si è assicurato una resa molto maggiore. Il riso
è originario dell'Asia orientale, ma si è diffuso in altre regioni
fin da tempi molto antichi. La sua coltivazione era praticata nella valle
dell'Indo probabilmente già nel V millennio a.C. Le popolazioni
dell'Indo, che conoscevano anche la coltivazione del grano e dell'orzo, forse
coltivavano ancora il riso nel suo ambiente secco. Dalle regioni indiane la
coltura del riso venne introdotta in Indonesia verso il 2500 a.C.
Il riso
acquatico (e i relativi metodi di coltivazione, che sono sostanzialmente quelli
ancor oggi applicati) fu conosciuto in Cina attorno al I millennio a.C., ma la
coltivazione della pianta in ambiente secco pare che risalga al VIII millennio
a.C. (il Neolitico antico cinese è tuttora scarsamente noto). In Europa
la coltura del riso è stata introdotta dagli Arabi attorno all'VIII
secolo d.C. Nella pianura padana, che è forse la regione europea dove ha
incontrato i maggiori successi, il riso è arrivato verso il XV secolo
importato dal Regno di Napoli, raggiungendovi la massima estensione verso la
fine del XIX secolo, quando occupava oltre 200.000 ettari. In America il riso
è stato introdotto al seguito della colonizzazione europea: primi
tentativi di acclimatazione sono stati fatti in Carolina sul finire del
Seicento.
Si è parlato di una «civiltà del riso»
contrapposta ad una «civiltà del grano». Anche se queste
espressioni contengono forse un'enfasi eccessiva, è vero che tra le due
aree sono esistite, ed esistono tuttora, alcune significative differenze. La
prima è che il grano nella sua area è stato precocemente oggetto
di commercio, costituendo nel Mediterraneo e in Europa una delle più
importanti e tradizionali merci di scambio (principalmente via mare) tra regioni
lontane, mentre il riso si è inserito in economie più chiuse e
veniva consumato di norma nei luoghi stessi di produzione. Un'altra differenza
è che il grano, al contrario del riso, esaurisce rapidamente il terreno
sul quale viene coltivato. Le popolazioni che si nutrono prevalentemente di
grano hanno perciò dovuto adottare sistemi di rotazione agricola, in
forza dei quali una parte della terra veniva lavorata a maggese, lasciata a
prato o comunque destinata alla produzione di foraggi. La relativa abbondanza di
foraggi ha permesso di affiancare alle attività più propriamente
agricole quelle dell'allevamento, con la conseguenza di una maggiore
disponibilità di bestiame grosso sia per il lavoro nei campi sia per
l'alimentazione umana. L'abbondanza di bestiame, a sua volta, ha favorito la
pratica di restituire fertilità ai terreni mediante la concimazione. Il
riso invece occupa tutti gli anni gli stessi campi e la maggior parte del lavoro
richiesto dalla sua coltura è fatto a mano. In più, le popolazioni
che si nutrono prevalentemente di riso consumano pochissima carne. In effetti
nelle loro condizioni nutrirsi di carne rappresenterebbe uno spreco incredibile
perché gli animali dovrebbero essere nutriti con le stesse granaglie che
rientrano invece nell'alimentazione dell'uomo.
In America non è
chiaro come sia avvenuto il passaggio dall'economia di raccolta a quella
agricola. In California e nel Texas tra i reperti archeologici di una antica
cultura fondata su un'economia di raccolta compaiono mortai e macine a mano, il
che significa che tecniche di manipolazione degli alimenti, come appunto la
macinazione, che nel Vecchio Mondo sono testimoniate solo dopo la rivoluzione
agricola, in America l'hanno in qualche caso preceduta. Le principali piante
coltivate in America sono state la manioca, la patata e il mais (Zea Mays) che
ha avuto una funzione analoga a quella del grano nel Vecchio Continente. In
Messico il mais era entrato nell'alimentazione umana già nel V millennio
a.C.: si trattava però di una varietà selvatica.
Allo stato
selvatico il mais ha una resa bassissima che non lo rende adatto alla
coltivazione. I primi agricoltori americani, sfruttando una mutazione genetica
intervenuta in questa specie per cui la spiga veniva fasciata da foglie
trasformate, selezionarono una pianta di alto rendimento, trasformandola al
punto che essa non sarebbe stata più in grado di riprodursi senza
l'intervento dell'uomo. Anche le tecniche di coltivazione del mais si sono
modificate adattandosi ai diversi ambienti. Sugli altopiani messicani o sulle
pendici della Ande peruviane, per esempio, si sono sviluppate tecniche di
coltura intensiva con terrazzamenti ed irrigazioni di montagna capaci di
ottenere rese altissime. Lo strumento di lavorazione del terreno è
rimasto invece lo stesso ovunque: il semplice bastone da scavo. Grazie alla sua
alta resa ed al poco lavoro che richiedeva (si calcola un massimo di 50 giorni
all'anno con le primitive tecniche di coltivazione), il mais è diventato,
assieme alla patata, l'alimento principale di quasi tutte le civiltà
precolombiane (quelle, cioè, che sono fiorite in America prima
dell'arrivo degli Europei). Le prime coltivazioni redditizie di mais fuori del
continente americano furono sperimentate nel Cinquecento nei Paesi Bassi. In
Italia, la pianta si affermò piuttosto lentamente, nel corso del XVI e
XVII secolo. Dall'Italia il mais-granoturco si è poi diffuso nell'Europa
orientale e nei Balcani. Nell'area del riso la sua coltura è penetrata
già sul finire del XVI secolo, ma anche qui solo nel XVIII ebbe una certa
diffusione, per altro limitata.
Una risaia a Bali
CEREALI
I cereali sono piante erbacee annue
coltivate per il loro alto valore nutritivo e impiegate sia nell'alimentazione
umana sia in quella del bestiame. Per l'alimentazione umana quelle che contano
sono le «cariossidi» (ossia i «semi» o «chicchi» o
«grani»), ricche di amido e di sostanze proteiche; nell'alimentazione
degli animali è usata invece l'intiera pianta. «Cereali», che
deriva da Cerere l'antica dea protettrice delle messi è il nome
collettivo con cui si indicano diverse piante della famiglia delle Graminacee:
il grano, l'orzo, l'avena, la segale, il granturco, il riso, ecc., a cui si
aggiunge il grano saraceno, che appartiene alla famiglia delle Poligonacee (e
che non bisogna confondere con il granturco: con la farina di grano saraceno si
prepara la polenta grigia, mentre con quella di granturco si fa la polenta
gialla). Il termine «grano» o «frumento» è il nome
collettivo di varie specie del genere Triticum, ciascuna delle quali conta
diverse varietà. Le diverse specie e varietà di grano si dividono
essenzialmente in due gruppi: i grani «vestiti», indicati
genericamente con il termine «farro», che presentano tegumenti o
glumette strettamente aderenti alla cariosside, e i grani «nudi». I
grani vestiti sono il Triticum spelta, detto spelta o «gran farro», il
Triticum dicoccum, detto propriamente «farro» e il Triticum monococcum
detto «piccolo farro» o «farragine» (farragine, però,
è anche il nome di una mescolanza di erbe usata come foraggio, e, per
estensione, sta a significare un ammasso disordinato di cose diverse). I grani
nudi in base alle diverse caratteristiche di frattura delle cariossidi, si
dividono in grani duri (il Triticum durum), con cariossidi tonde, opache, ricche
di amido, e grani teneri (il Triticum vulgare o aestivum), con cariossidi
allungate, lucide, ricche di glutine. I primi sono particolarmente adatti alla
fabbricazione delle paste alimentari, i secondi alla
panificazione.